di Redazione Ennesimo Film Festival
Il diario di una bambina bruscamente interrotto fa da brogliaccio alla narrazione. A leggercelo è una voce fuori campo non ben identificata (Max Tortora) che colloca la storia in un quartiere della periferia romana, e la reinventa completandone i dettagli ed immaginandosi il motivo dell’improvvisa interruzione. La poetica dichiarata del film sta tutta in questo passaggio: la visione infantile e favolistica delle parole della bimba, viene mescolata con la crudeltà, il dramma che sembra trasparire dalle righe vuote, dai non detti, dalla pienezza delle sconnessioni tra i pensieri. Il risultato è un contenuto altamente estetico, ma brutale, una favola cattiva, una “favolaccia” appunto, che calca sull’incomunicabilità del mondo dei bambini e quello degli adulti, rappresentandoli uno come la brutta copia dell’altro che per emulazione, ne succhia gli aspetti portanti: il nichilismo e l’insoddisfazione.
Premiato per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino, e sostenuto da interpreti d’eccezione come Elio Germano, l’opera dei fratelli D’Innocenzo è da inserirsi tra i migliori film italiani degli ultimi anni, che cavalca l’onda narrativa già inaugurata (in parte) da Dogman, della tragedia a toni pastellati che ci riporta alla struttura tradizionale della fiaba prima di Disney, in cui inquietudine e dolore non erano ancora tabù da sdrammatizzare.