di Redazione Ennesimo Film Festival
Dire che con l’avvento delle piattaforme streaming sia cambiato il modo di fare e di fruire il cinema è oramai un’ovvietà. Sì, la visione in sala è un’altra cosa, sound design e lavoro sul campo visivo sono imparagonabili. D’accordo. Però è cambiata anche un’altra cosa, di cui si parla meno ma che influisce non poco sullo spettacolo cinematografico: la sua produzione o, più precisamente, il perché si produce. Ovvio, il discorso “di cassetta” non è cambiato: come si produceva il cinepanettone o il film romantico con Julia Roberts per portare più gente in sala, ora si produce l’adattamento da questo romanzo piuttosto che il film con questo attore di grido per fare più streaming e aumentare gli abbonamenti. Andiamo però a scavare nella nicchia. Parliamo, ad esempio, di film d’autore, in contrapposizione (non manichea) al sempre più quotato, per le masse, film d’attore.
Perché io, produttore, dovrei investire su un film di Shin’ya Tsukamoto, piuttosto che di Roman Polanski? Tradizionalmente perché mi piace quell’autore (si pensi a George Harrison che fondò una casa di produzione pur di finanziare e vedere Life of Brian dei Monty Python), ma soprattutto perché penso che un autore possa parlare ad un certo pubblico e, di conseguenza, possa portarmi un beneficio economico.
Questa dinamica, ora che il produttore, come il distributore, è una piattaforma, ha subito una notevole variazione: se il mio pubblico non paga il biglietto per una pellicola, ma la può vedere all’interno di un abbonamento, questo discorso “di nicchia” decade. Il sostentamento della piattaforma è garantito dagli abbonati affezionati alle serie tv di punta e ai film di cassetta. Poi per ingraziare il cinefilo che la guarda di sbieco viene prodotto anche l’ultimo film di Spike Lee. Cosa costa? Forse anche tanto. Quanto si perde? Delle views, al massimo, perché con gli abbonamenti di un singolo mese di una sola nazione, può darsi che quel film sia già stato ripagato. E allora, mi chiedo: alla produzione interessa ancora quello che un regista ha da dire con la sua ultima opera, o gli basta il nome? Interessa davvero capire a chi parla questo film, o basta solo scrivere a caratteri cubitali “IL NUOVO FILM DI….SOLO SU….”?
Detto questo: a chi è rivolto Mank di David Fincher, ultima fatica del regista dopo sei anni di silenzio cinematografico (dopo il flop di uno dei suoi film più belli e teorici, Gone Girl)? Può interessare ad uno spettatore medio la storia della travagliata stesura della sceneggiatura di Quarto Potere e della figura del suo geniale sceneggiatore Herman J. Mankiewicz? No, chiaro. Parla al cinefilo? No, non per forza, o quantomeno gli parla in virtù del suo autore e non della trama.
Nel 2010 l’idea di un film di Fincher su Mark Zuckerberg mi era sembrata davvero poco interessante. Eppure The Social Network, si è rivelato una bomba: bel cast, sceneggiatura ad orologeria, musiche meravigliose, una regia potente. C’era un’esigenza narrativa, c’era la volontà di catturare lo spettatore, di portarlo in sala ed incatenarlo alla poltrona. Era un film vivo, pulsante, anche in virtù di questa necessità di spettacolo. Nel 2020, non ho ritrovato questa necessità in Mank, che non è un brutto film: dialoghi frizzanti, Oldman di una bravura mostruosa come sempre (pur con un’ombra di maniera), fotografia affascinante fortemente vintage fin dai titoli di testa, e Fincher, che è sempre Fincher. Però la sensazione è quella di aver assistito ad un saggio di bravura, ad un autore che si compiace di raccontare bene una storia di per sé poco avvincente, ad un autore che abbia voluto incantare lo spettatore illudendolo di vedere un film degli anni ‘40, con un bianco e nero imperfetto ed un suono mono dai bassi potenti e dal riverbero tipico delle vecchie registrazioni su nastro. Un saggio su come si faceva a quei tempi il cinema, ma pur sempre un saggio, non un film. O meglio, non un film che viva di vita propria e cammini sulle proprie gambe. E, tradimento dei tradimenti, nel voler essere così fedele al classicismo di quel cinema finisce per dimenticarne l’originalità e l’avanguardismo, la sfrontatezza. Senza andare a pescare troppo lontano: guardate (o riguardate) Quarto Potere o L’orgoglio degli Amberson, subito dopo, e capirete.